Un mio racconto per la Holden: adolescenza e timidezza

I miei genitori mi avevano aiutato anche a fare lo zaino con tutto l’occorrente per andare in piscina senza neppur accorgersi del mio stato d’animo.

Per loro essersi trasferiti – dopo che avevo finito la quinta elementare – dalla città tutta pianura e asfalto alla cittadina di mare aveva rappresentato una vera e propria scelta di vita, per me no.

La prima media con tutti i cambiamenti del caso era stata infatti un disastro.

Senza contare che prima a scuola ci andavo con loro, da quando siamo nella loro amata località di mare a vivere, devo prendere il pullman.

Sul bus mi salutava sempre l’autista ma io vedevo troppe ragazze ridere e scherzare con lui: io non ce la facevo.

Gli rispondevo, ogni volta, solo con un cenno con la testa.

Dicevano fossi timida, non lo so che cosa intendessero.

Stamattina, non ho risposto neppure al suo saluto.

Alla fine, quello che temevo si era avverato.

Perché bisogna andare a nuotare stamattina, pensai mentre prendevo posto in fondo e nascosta da tutti.

In realtà di questa decisione della scuola se n’era già parlato, ma almeno l’anno scorso durante l’ora di educazione fisica andavamo semplicemente in palestra e io ci arrivavo con la mia semplice tuta d’ordinanza. Non mi cambiavo neppure: né prima, né dopo.

Ora, l’annuncio tanto temuto. Boh, che motivo avevano di inserire la piscina.

Il bidello arrivò con la sua aria stanca a portare la circolare che ufficializzava per la nostra scuola l’inserimento di due ore settimanali di nuoto.

Ce l’aveva fatta il prof. ad ottenere questa gran rottura della piscina.

Ora tutti mi avrebbero vista in costume e io non ne ho voglia. Poi da quelli, figurati.

No, io non mi ci vedevo con il costume.

Mentre le mie compagne tutte eccitate chiedevano se si potevano mettere il due pezzi, io pensavo: “davvero, che differenza fa?

Odio tutti i costumi”.

La mia vera passione è solo una: mangiare.

Dolce o salato mi chiedevano sempre: ma come si fa a scegliere, come?

Se c’è il salato mangio il salato, se c’è il dolce mangio il dolce. Sì, perché io adoro mangiare.

Mangio tantissimo dolce e salato quando andiamo al ristorante o al fast food con i miei genitori per non parlare di quando siamo a casa: mamma e papà vogliono chiudere sempre con un dolce i nostri pasti, è un dogma. E così quando siamo fuori.

Forse è anche per questo che l’annosa questione tra dolce e salato per me non si pone.

Dicono che se fai sport, dimagrisci.

Non mi piace fare sport, lo detesto.

‘Ciccia’ mi chiamano, a volte non mi importa, altre volte, invece, mi entra dentro pian piano quella parola, a volte entra così nel profondo fino a farmi piangere.

Come facevano a pensare che per me non sarebbe stato un problema farmi vedere da quelli in costume?

Perché per i miei genitori essere ‘ciccioni’ non era mica un problema: loro ci convivevano con tutta la serenità di questo mondo mentre io, cominciavo a farmi qualche domanda.

E che terribile disagio quella mattina che sanciva l’inizio del nuoto. Una fifa blu, una vergogna difficile da descrivere, da togliere il fiato.

Il pullman si fermò davanti a scuola: non scesi, sapevo che non ce l’avrei fatta.

L’autista mi scrutava dallo specchietto mentre per un attimo pareva volesse dirmi qualcosa, ma non lo fece: chiuse tutte le porte facendo ripartire la marcia di quel bisonte.

Avevo già programmato di andarmene in spiaggia, lì durante i giorni lavorativi non avrei trovato nessuno e, soprattutto, non mi sarei dovuta mettere in costume.

Scuola o spiaggia?

Poteva essere l’inizio di un altro eterno dilemma, dopo dolce e salato: fosse stato per me avrei scelto per sempre la spiaggia.

Per una volta non avevo dubbi.

Camminai sulla sabbia convivendo con tutti i pensieri, cercando di capire come avrei fatto a falsificare la giustificazione per l’assenza di oggi a scuola, e come sarebbe stato possibile farlo per sempre.

Avevo fame: in fondo, giusto alla fine della spiaggia, c’era un piccolo bar con una ragazza riccia; ma sì, proviamo.

Lei mi sorrise, mentre io abbassavo già lo sguardo.

“Posso avere un gelato, menta e liquirizia per favore”?

Certo: cono o coppetta?

“Sai che non so mai rispondere a questa domanda, in realtà. Mi piacciono entrambi, come dolce e salato. Perché scegliere anche tra cono e coppetta’

Fai tu, mi piacciono entrambi”.

Davvero? Sai che molti clienti preferiscono la coppetta, con il cono dicono che ci sia il rischio che gliene diamo uno che sta lì dall’inizio del secolo, che pazzia. Ti pare che diamo coni stantii ai clienti?

“Sai, potresti aver ragione, ma non mi interessa, anche se il cono fosse vecchiotto”.

Va bene, scelgo io per te: cono. I nostri sono freschissimi.

“Grazie, ciao”.

Mi voltai in fretta e cercai di nascondermi da tutti, la giornata in solitaria sarebbe stata lunga: oggi, avrei evitato un problema che non sapevo come risolvere, ma domani si sarebbe ripresentato. Non ci pensai e mi addormentai di un sonno così profondo che quando mi svegliai era già pomeriggio.

Chissà cosa avrei detto ai miei genitori: avrebbero capito? E la scuola? Non importa, tanto non ci sto capendo nulla io, per prima.

Quando vai ko(e non solo),leggi un libro

Dallo scorso fine settimana, sono letteralmente crollato: nulla di grave, un’influenza infingarda di quelle che oltre a debilitarti nel fisico, ti porta giù anche nel lavoro intellettuale.

Che è quello che più mi serve: pare che tutto si annebbi e, oltre alla stanchezza cronica, non riesci neppure a scrivere due righe.

In compenso, però, ho letto.

Un romanzo di uno scrittore ungherese, Sándor Márai: “Confessioni di un borghese” acquistato da mio padre, a cui ho chiesto di passarmelo una volta finito.

Uno scrittore clamoroso e una storia – la sua – che mi ha colpito; senza scomodare Goethe (autore che tra l’altro viene citato spesso da Márai nel libro) con le sue ‘Affinità elettive’ ho trovato tra le righe di quest’opera di 500 pagine, troppe analogie con quello che sto vivendo, che sognavo e che sogno.

Il caso non esiste, pensavo mentre lo leggevo: mio padre che acquista il volume dopo aver letto una recensione di questo autore nelle pagine culturali del ‘suo’ quotidiano; io che mi ritrovo nel passato, presente e, incredibilmente, futuro della mia esistenza mentre divoro ogni singola pagina di quest’opera straordinaria.

Dicevamo di quelle che si chiamano coincidenze che, forse, a causa dell’età che avanza tendi ad identificare con qualcos’altro: fato, magia, destino.

E di questo s’è trattato, ne sono certo.

Un libro che si ambienta (anche) in una città tedesca dove presto andrò (chi mi segue con assoluta costanza lo scoprirà presto) e che racconta la storia, autobiografica, di Márai e delle sue (dis)avventure come giornalista e scrittore.

Un libro che mi ha insegnato quello che ancora non sapevo e mi ha fatto conoscere la città che vivrò intensamente grazie ad un progetto professionale – oltre che stimolante – assolutamente di grande interesse civile.