Cerignola is Puglia too!

Il Gruppo di Blogger e Giornalisti durante il Press Tour: “Sulle strade di Peppino Di Vittorio”

Quando penso a Cerignola  non riesco a non pensare a Giuseppe Di Vittorio e quando penso a Giuseppe Di Vittorio non riesco a non pensare a Cerignola e proprio per un semplice motivo: entrambi hanno sovvertito un destino avverso con la determinazione, la forza di volontà, la passione, la purezza degli ideali e dei valori che sono patrimonio di questa Terra.

Ho partecipato grazie alla Regione Puglia ad un Press Tour organizzato egregiamente da Daunia Press Tour insieme a giornalisti e Blogger.

 

Ho conosciuto Enrica, Giornalista de: “IlSudOnLine” ( www.ilsudonline.it ) ed i bloggers: Claudia ( www.vocedelverbopartire.com ), Veronica ( www.oggidoveandiamo.com), Andrea ( www.happilyontheroad.com) e Matteo ( www.travelstelling.com ) ma ho imparato a conoscere una Terra, che  mi rimarrà per sempre nel cuore.

E vi racconto perché.

Intanto un Grazie di cuore soprattutto a Giovanni Rinaldi, Luca d’Andrea, Francesco Quitadamo e  Mariangela Mariani per il prezioso supporto che ci hanno fornito.

L’unica colpa che si può imputare a Cerignola è quella di essere nata in Puglia senza essere bagnata dal mare. Ma anche il destino cinico e baro si può tranquillamente sovvertire se ci si affida alle doti tipiche di questa Terra e dei suoi abitanti: passione e determinazione.

La stessa determinazione che contraddistinse la vita di Giuseppe Di Vittorio che nacque proprio qui a Cerignola nel 1892 e che con la sua passione cercò di cambiare le cose sin da quando a soli 8 anni si trovò a dover lasciare la scuola per lavorare come “Scaccia-corvi” negli stessi latifondi dove il Padre perse la vita, massacrato dalla fatica e dalla fame.

Autodidatta, sempre assetato di conoscenza – divenne sin da subito – il punto di riferimento per gli altri Braccianti che guidò nelle prime proteste organizzate per ottenere salari e condizioni di lavoro migliori rispetto a quelle esistenti.

Il Press Tour si chiama – non a caso – “Sulle strade di Peppino Di Vittorio” proprio per far comprendere come il binomio tra Cerignola e Di Vittorio è inscindibile e legato a doppio filo.

A Cerignola c’è voglia di riscatto.

Lo si incontra nelle Cooperative strappate alla Mafia e riconsegnate alla legalità – non senza sforzi e rischi – come: “Pietra di Scarto” ed “Altereco” dove ettari di terreno vengono fatti rifiorire grazie alla volontà di giovani pronti a ridare dignità al presente e a garantire un futuro – in primis a se stessi – ma soprattutto a Cerignola e a tutti i cerignolani.

Alla Cooperativa Pietra di Scarto
Alla Cooperativa Pietra di Scarto

Così come chiedeva a gran voce Giuseppe Di Vittorio nella Masseria: “Durando e Cirillo” primo luogo di lavoro del bambino strappato alla scuola, ma già senza paura alcuna nel rivendicare per tutti i braccianti, la dignità.

Cooperativa sociale alter eco
Cooperativa sociale alter eco

Aveva visto morire di fatica il Padre, aveva assistito a scene di miseria e di sopraffazione nelle Piazze del Paese per decidere chi potesse lavorare e chi no nelle Terre dei padroni. Da quella scelta poteva cambiare la quotidianità di una persona: lavorando si sarebbe potuto mangiare oppure no. Ma anche l’essere “arruolati” spesso non bastava, la piccola porzione di pane duro con un “filo” d’olio era una ricompensa al limite della decenza per una giornata trascorsa nei campi e per la stessa dignità dei braccianti.

La vita di Giuseppe Di Vittorio è stata straordinaria nella sua cavalcata continua, tra sopraffazione e dignità, tra miseria e riscatto: protagonista assoluto del Novecento e precursore dei tempi con i suoi messaggi ancora oggi attualissimi.

Giuseppe Di Vittorio

Nel 1915 parte per il Fronte nei Bersaglieri per la prima Guerra Mondiale. Al ritorno sposa Carolina Morra e avranno due figli: Baldina e Vindice ( dal nome inusuale del figlio e dal suo significato: “Colui che rivendica” si comprende molto della figura di Peppino Di Vittorio).

Diviene il più giovane Segretario generale della Camera del Lavoro a Minervino Murge a soli 20 anni.

Lasciare Cerignola per andare a Minervino Murge, significa visitare un luogo che viene anche definito: “Il balcone delle Puglie”. Situato all’orlo dell’ultimo gradino calcareo che si affaccia sulla Fossa Premurgiana, questo luogo di neppure diecimila abitanti ci lascia incantati.

La poesia dei suoi vicoli, delle sue case e dei fiori che ne celebrano l’unicità e la particolarità ci catapulta in uno scenario di rara bellezza e ne restiamo tutti profondamente colpiti.

Un’abitazione a Minervino Murge

Una citazione a parte, merita il cibo: materie prime e prelibatezze della tradizione contadina, attraggono turisti da ogni parte del mondo per assicurarsi leccornie da leccarsi i baffi.

Nel Febbraio del 1921 dopo aver organizzato lo sciopero generale, Giuseppe Di Vittorio viene arrestato.

La visita al Carcere di Lucera e la possibilità di entrare in quella cella che per ben due volte “accolse” Peppino Di Vittorio fa capire come il principio di libertà sia venuto a mancare nei confronti di chi combatteva per la stessa. A favore degli ultimi.

L’esterno del Carcere di Lucera

Dopo il suo primo arresto, i socialisti gli offrono un posto in Parlamento.

Di Vittorio diventa deputato.

E’ con l’arrivo del Fascismo e l’inizio della Seconda Guerra mondiale che si inaspriscono ancor di più le condizioni dei braccianti e lo stesso Di Vittorio si ritrova a dover fuggire da Cerignola – prima andando a Roma – poi in Russia e, infine, a Parigi.

Nel frattempo si iscrive al Partito Comunista di Palmiro Togliatti e Antonio Gramsci, combattendo anche con la Resistenza per contrastare la presa del potere del Generale Francisco Franco in Spagna.

A Parigi dirige il giornale: “La Voce degli Italiani” – Un quotidiano per gli esuli e per gli emigrati, per la pace, per la libertà.

Proprio per riallineare il filo della storia, l’aiuto dello storico Giovanni Rinaldi ci consente di comprendere meglio tutti i percorsi accidentati che Di Vittorio percorse durante la sua vita, senza mai perdere di vista il fine ultimo della sua esistenza: rivendicare e lottare contro le ingiustizie, combattere per la libertà.

Per comprendere meglio la statura etica e morale del grande sindacalista e politico cerignolano, basta visitare l’Associazione: “Casa Di Vittorio” a Cerignola dove volontari appassionati ne conservano le memorie, le gesta e ne testimoniano l’insegnamento ancora attuale per la società un pò schizofrenica di questi tempi. Vedere diversi giovani impegnati per il Servizio civile presso questa Struttura, rappresenta un Ponte ideale tra chi ha conosciuto e si ricorda ancora la figura di Di Vittorio e chi ne porterà avanti il ricordo attraverso la condivisione della conoscenza.

L’incontro presso la sede dell’Associazione Casa Di Vittorio

 

Anche la visita presso l’Azienda Santo Stefano dei Conti Pavoncelli è di per sé illuminante.

In una tenuta dalla gestione virtuosa, nasce: “La bella di Cerignola”.

Olive verdi e olive nere che sono un incanto, orgoglio di questa Terra e la cui lavorazione è oggetto di studio e di continue visite da parte di Scuole, Istituzioni e di appassionati. ( www.labelladicerignola.com ).

L’ingresso dell’Azienda Santo Stefano dei Conti Pavoncelli

E proprio qui alla fine della visita, ci viene letta la missiva ( da brividi, considerando la corruzione che spesso ci tocca sentire nelle notizie di attualità politica ) che Di Vittorio inviò al sig. Preziuso che per conto di Pavoncelli, gli consegnò a casa un regalo in segno di stima e di amicizia.

 

Uno scorcio all’interno della Tenuta dei Conti Pavoncelli

Da leggere:

– CERIGNOLA –
li 24 Dicembre 1920

Egregio Sig. Preziuso.
In mia assenza, la mia signora ha ricevuto quel po’ di ben di Dio che mi ha mandato.
Io apprezzo al sommo grado la gentilezza del pensiero del suo Principale ed il nobile sentimento di disinteressata e superiore cortesia cui si è certamente ispirato.

Ma io sono un uomo politico attivo, un militante. E si sa che la politica ha delle esigenze crudeli, talvolta brutali anche perché – in gran parte – è fatta di esagerazioni e di insinuazioni, specialmente in un ambiente – come il nostro – ghiotto di pettegolezzi più o meno piccanti.

Io, Lei ed il Principale, siamo convinti della nostra personale onestà ma per la mia situazione politica non basta l’intima coscienza della propria onestà.
E’ necessaria – e Lei lo intende – anche l’onestà esteriore.
Se sul nulla si sono ricamati pettegolezzi repugnanti ad ogni coscienza di galantuomo, su d’una cortesia – sia pure nobilissima come quella in parola – si ricamerebbe chi sa che cosa.
Si che, io, a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli, che stimo moltissimo come galantuomo, come studioso e come laborioso, sono costretto a non accettare il regalo, il cui solo pensiero mi è di pieno gradimento.
Vorrei spiegarmi piu’ lungamente per dimostrarle e convincerla che la mia non è, non vuol essere superbia, ma credo di essere stato già chiaro. Il resto s’intuisce.
Perciò La prego di mandare qualcuno, possibilmente la stessa persona, a ritirare gli oggetti portati. Ringrazio di cuore Lei ed il Principale e distintamente per gli auguri alla mia Signora.

Forse, il senso di questo Tour sta tutto qui.

Nel messaggio ancora attuale che Di Vittorio ci ha lasciato: l’onestà e l’etica come capisaldi imprescindibili del proprio vissuto quotidiano di bracciante, cittadino, sindacalista, politico e combattente.

Da bracciante fino ad arrivare a guidare il sindacato unico della Cgil – allora non ancora diviso e unico sindacato – sempre con le sue doti di cerignolano: appassionato e determinato.

Lo stesso sentiero da lui tracciato, lo abbiamo ripercorso oggi tra i cerignolani e gli abitanti della Daunia, di quel pezzo di Tavoliere non baciato dal Mare e poco conosciuto ma che ci ha fatto scoprire una Terra fiera, orgogliosa e forse troppo discreta nel decantare le proprie virtù.

Questo mio pezzo vuole essere una ostentazione voluta e meritata di quel che rappresenta questo territorio: passione, determinazione ed accoglienza senza pari.

Il microclima, le ambientazioni e il cibo fanno il resto. Visitate Cerignola e la Daunia.

Chiudo con un racconto che mi ha fatto emozionare e che voglio condividere con voi.

Non appena arrivato a Cerignola, sono stato accolto dal B&B Casa Moccia – Maison d’Antan – ( www.casamoccia.it ) e dal proprietario, il sig. Filippo.

 

Sulla splendida terrazza del B&B di fronte alla Chiesa del Carmine di Cerignola

Una volta averci accolto egregiamente, ci ha raccontato la storia del suo B&B.

“Questa è la vecchia casa in cui sono cresciuto con i miei genitori. Ho trascorso qui la mia infanzia e dopo qualche anno lasciammo la casa perché eravamo in affitto. Pochi anni fa, passando per il Centro di Cerignola,  ammirandola con il sentimento di un uomo che, riguardandola, riapre il cuore e il suo personale libro dei ricordi, leggo un cartello: “Vendesi”.

Mi dirigo verso l’Ufficio dell’Agenzia immobiliare sperando che non sia stato ancora venduto. Il destino mi aiuta – così perfeziono l’acquisto – e la casa torna a far parte della mia Famiglia. Ma decido di condividerla con gli altri. La ristrutturo, senza stravolgere nulla. E penso, insieme a mia moglie e ai miei figli: ‘Questa bellezza deve essere a disposizione di tutti. Sono a casa mia, dove sono cresciuto, ma gli ospiti quando verranno qui si troveranno soprattutto a casa loro.”

Passione  e determinazione è Cerignola.

Passione e determinazione scorre nelle vene dei cerignolani.

Un saluto e un ringraziamento al Sindaco e al Vice Sindaco di Cerignola con cui abbiamo condiviso un pranzo anch’esso costellato da racconti su questa terra molto interessanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Fatti, opinioni e preconcetti

Due mesi fa, alla nascita del bimestrale: “On Air” -il giornale che dà voce a Malpensa- il nostro Liguori firmava il suo e nostro primo editoriale sottolineando un concetto fondamentale: far tornare i fatti ad essere i protagonisti delle notizie.

In un’epoca dove la mia verità e le mie convinzioni vengono delegate al politico di turno e non solo diventa difficile ristabilire di chi mi possa o mi voglia fidare.

Una notizia può essere riportata in maniera diametralmente opposta se si vuole fare in modo che i fatti vengano letti a nostro personale uso e consumo.

Ciò che preoccupa in quest’epoca schizofrenica dove si ha un’idea su quasi tutto e poche conoscenze approfondite sulla maggior parte di ciò che avviene, si comprende bene come ci si trovi davanti ad una sorta di cortocircuito generale.

Se da una parte si dà la colpa ai media, dall’altra invece non si considera come il pubblico non creda che ai media cui decide di credere per preconcetto.

E qui entra in campo il preconcetto.

Che cos’è?

Se aggettivo: “Di quanto rispecchia una presa di posizione eccessivamente affrettata e spesso priva di qualsiasi fondamento oggettivo”

Se sostantivo maschile: “Opinione che, non essendo sostenuta dall’esperienza, può costituire un serio ostacolo alla formulazione di un giudizio appropriato.”

Provate come si fa in statistica ad utilizzare un paniere limitato alle persone che parlano di politica per esempio.

Che voi le conosciate bene, o meno bene, avrete modo di comprendere di come la loro idea si formi su notizie riportate su alcuni media piuttosto che su altri, di ciò che dice un politico, ma se un esponente di un altro partito dovesse affermare o, peggio, attuare nel concreto, qualcosa di sensato, di utile per la collettività rimarrebbe un pidiota se del Pd, “grullino” se dei 5 stelle, etc. etc.

Oggi i fatti non esistono più.

Esistono le notizie ad uso e consumo di chi legge e che sappiamo che vogliono quel tipo di notizie perché la stanno leggendo su un quotidiano piuttosto che un altro.

Sembra tutto così preconfezionato, piatto.

Ma se davanti ai fatti drammatici come quelli recenti accaduti a Barcellona, per molto tempo si era sparsa la notizia infondata che i terroristi erano asserragliati con degli ostaggi all’interno di un bar, a chi crediamo?

A chi deleghiamo ( spesso con troppa disinvoltura ) la lettura delle notizie.

Da giornalista leggo tante bufale, cazzate e adotto strumenti il più possibile oggettivi per leggere la realtà che molti vorrebbero farmi vedere come piace a loro.

Sarebbe il caso di adottare i giusti “anticorpi” di fronte ad eccesso di notizie, spesso confezionate da “ultrà” di una fazione piuttosto che da cronisti che raccontano i fatti.

 

Una schizofrenia globalizzata

In questi tempi moderni è facile improvvisarsi tuttologi, disquisendo su tutto: dall’elezione di Trump, al Terrorismo, dai migranti alle politiche fiscali che andrebbero intraprese per il proprio Paese di cui siamo cittadini, ma anche degli altri, perché no?

Un tanto al chilo verrebbe da pensare.

Partiamo da chi accusa i giornalisti e sono tantissimi: dall’uomo “normale” che vede complotti ovunque e li approfondisce con i propri collleghi preferibilmente davanti alle macchinette del caffè, fino ai Potenti della Terra come il neo eletto Presidente degli Stati Uniti d’America ( Trump ha intrapreso una cruda battaglia contro i giornalisti dipingendoli come i “più disonesti della Terra ), vedendoli come fabbricatori di notizie ad uso e consumo del proprio referente, sia esso editore, parte politica o grande gruppo economico e finanziario.

E’ vero altresì che esiste una crisi da parte del mondo del giornalismo: dalle notizie che non sono più quelle con la N maiuscola e, con il conseguente crollo della fiducia dei lettori nei confronti di chi per mestiere deve dare le notizie, verificarle e pubblicarle come tali.

Come afferma il Direttore di “Internazionale” Giovanni de Mauro: “I giornalisti dovrebbero uscire di più dalle redazioni, per ricominciare ad ascoltare e a raccontare il mondo che ci circonda”.

Sono d’accordo, ma siamo davvero sicuri che se ciò avvenisse ( non sono certo neppure del fatto che questo non avvenga più ) non ci sarebbe qualcuno che andrebbe ad affermare che la notizia che è stata pubblicata, nell’ordine:

  1. non ha fondamento;
  2. è una bufala, soprattutto perché va ad intaccare una parte presa in causa dalla notizia stessa e, a quel punto, a chi crederebbe l’opinione pubblica?

Al giornalista o al proprio Leader ( Guru ) di riferimento?

O a Facebook, o a siti dai  nomi improponibili che non passerebbero un elementare Fact Checking figuriamoci un più semplice ed efficace Alcool test per verificare più che altro la sobrietà di chi pubblica certe notizie.

In una società costellata di fan(atismi) credo che i giornalisti perderebbero comunque anche di fronte alle realtà più inconfutabili.

Mi piacerebbe essere smentito dai fatti.

 

 

 

 

 

L’eccesso di delega è lettera morta.

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Si fa un gran parlare della Brexit in Gran Bretagna. Si fa un gran parlare di Trump e della sua vittoria, a detta di molti, inaspettata.
Si fa un gran parlare del referendum costituzionale del 4 dicembre qui da noi in Italia, che dovrebbe essere un Renzi si’, Renzi no. Non mi piace parlare di “massimi sistemi”, quello lo lasciamo fare all’accademico che, come mi diceva sempre il mio Professore all’Università, e’ talmente accademico che parla più con i libri che con le persone in carne ed ossa.
O ai cosiddetti “influencers” che, invece, parlano più con il loro computer che con le persone normali.
O, ancora, ci sono infine, le cosiddette “èlite”: quelle che parlano solo a loro stesse e, talvolta, ai loro simili: di casta, solitamente, e figuriamoci se hanno voglia di parlare e discutere con le persone normali.
Oggi anche il giornalista diventa vittima di questo cortocircuito: intervista l’accademico, l’influencer e quello dell’élite, lasciando come semplice “rumore di fondo” alle sue inchieste proprio le persone normali, il vero termometro della società attuale.
Per questo l’approccio dovrebbe essere rivoluzionato, sono proprio le persone comuni che hanno il polso di come vadano realmente le cose: facendo  la coda alle Poste,  vedendo  cartelle esattoriali impazzite, non trovando un lavoro decente per i loro figli, dopo che per anni gli hanno pagato gli studi.
E poi,  pagare  le tasse con regolarità e vedere che la sanità pubblica pare sempre più privata e le attese In un pronto soccorso sono sempre più lunghe.
Di certo, i cittadini americani dell’Ohio piuttosto che del Wisconsin, le cosiddette persone normali avrebbero potuto far comprendere a tutti come Trump si avviava agevolmente verso la vittoria.
Credete che nella città di Londra abbia vinto il sì, alla Brexit?
L’uscita dalla Brexit l’ha decisa la periferia.
I cittadini lontani dalle grandi città, dai grandi centro economici e finanziari che non hanno mai visto i grandi vantaggi di una Europa unita.
Che si sentivano ancora più poveri di prima, pur non essendo mai stati ricchi perché non si aspettavano, paradossalmente, di poter diventare ancora più poveri, dopo aver sognato un futuro diverso, più prospero.
È quanto non comprende la politica dei salotti, lontana dalle persone e dalla quotidianità, che crede di trovare soluzioni, distante anni luce dalle vite di ognuno di noi e dalle difficoltà quotidiane che si affrontano.
E in Italia, invece?
C’è un reale rischio di delega, da parte nostra, per poi accorgersi di ricevere nulla con tutte le nostre raccomandazioni che rimangono spesso lettera morta.
Cosi’ un referendum costituzionale mi pare limitativo rappresentarlo come un indice di gradimento su Renzi.
Così come registro una reale difficoltà su che cosa si intenda per riforma costituzionale e della stessa proposta che è stata formulata. Si conosce poco l’argomento.
Quelli che chiedono un Si’, lo fanno per dire che tutto cambierà per il meglio.
Quelli che dicono No, lo fanno per dire che tutto sarà peggiore.
E nessuno che entri nel merito della questione, delle questioni.
Tu cosa voti, spesso mi sento dire.
Ed io, rispondo più o meno così: “Leggi e studia, approfondisci il tutto e fatti una tua idea. Sei Renziano  e lui ti chiede di votare Sì? Non fa nulla e decidi comunque con la tua testa, che sia un Si’ o un  No. Altrimenti poi non lamentarti, se le cose le subisci e non ti piacciono così come vanno.”
Chissà gli accademici, le élite e gli influencers che previsioni hanno in mente per il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre.
Voi non ascoltateli, dopo esservi fatti una vostra opinione, parlatene con amici e con NOI persone normali e sono sicuro che capirete da lì chi vincerà davvero.

Verità per Giulio Regeni

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foto tratta da Vanity Fair

Le notizie ormai sono diventate peggio dell’hamburger che mangiamo in un fast food: lo si (ap)prende, lo si mastica (amaro) e lo si dimentica presto.

Eppure c’è un ragazzo che ha perso la vita in maniera atroce non molto lontano da noi, in Egitto, a Il Cairo.

Si chiamava Giulio Regeni e, anche lui, non era un ragazzo qualsiasi.

Aveva solo 28 anni. A 17 anni era già studente nel New Mexico, per poi trasferirsi nel Regno Unito, dove era un brillante studente di Economia a Cambridge.

Ha raggiunto Il Cairo per il Dottorato di ricerca su cui stava lavorando.

Parlava l’inglese alla perfezione, lo spagnolo e l’arabo che voleva approfondire maggiormente attraverso la sua esperienza in Egitto. Grande appassionato di studi sul Medio Oriente, nel 2012 e nel 2013 aveva vinto due premi al Concorso internazionale intitolato “Europa e giovani”, promosso dall’Istituto regionale per gli Studi europei, l’Irse del Friuli Venezia Giulia.

In Egitto, nella Capitale, a Il Cairo seguiva la realtà e le attività dei sindacati indipendenti: realtà difficile, complessa e per certi versi, pericolosa.

Non è facile districarsi da studente straniero che parla perfettamente l’inglese, ma italiano di origine, tra sospetti di spionaggio e tentativi neanche tanto velati di intimidirti.

Durante una di queste riunioni sindacali, nella sede del Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati, Giulio Regeni scrive un reportage piuttosto dettagliato che diventò poi un articolo scottante che fu costretto a firmare sotto forma di pseudonimo.

Segnale che già il timore di ritorsioni fosse alto nella mente di Giulio Regeni negli ultimi tempi.

Al Cairo la realtà dei sindacati indipendenti, infatti, è considerata ad alto rischio di infiltrazioni, da qui le accuse a Giulio di essere una spia dei servizi segreti al soldo di qualche nazione.

Sicuramente, tra gli altri, chi aveva interesse a conoscere i temi affrontati dai sindacati indipendenti erano nell’ordine: il regime egiziano, i Fratelli musulmani, il partito religioso e i servizi segreti egiziani e non solo.

Le varie primavere arabe che hanno visto la spinta verso democrazie più “occidentali” e partecipate rimangono tuttora, per certi versi, molto fragili.

E il regime egiziano non vedeva di buon grado la realtà dei sindacati indipendenti, proprio quelli di cui Giulio si era appassionato e che voleva studiare da vicino per il suo Dottorato di ricerca.

La sua fine, atroce e senza un colpevole, lascia senza fiato.

Per le sue ricerche è stato barbaramente torturato prima di essere assassinato.

In attesa di risposte, una sola voce deve alzarsi: “Verità per Giulio” e non dimentichiamolo facendo nostro l’appello di sua sorella che chiede ad ognuno di noi di condividere, mostrare foto di questo ragazzo che è stato ucciso per aver cercato la verità, raccontandola sul campo.

Chiudo con le parole toccanti di sua madre che raccontano questo straordinario ragazzo di 28 anni che rappresentava la nostra: “Meglio gioventù”.

“Grazie Giulio, per avermi insegnato tante cose. Resta nel mio cuore l’ energia del tuo pensiero. Il tuo pensiero, per amare, comprendere, costruire tolleranza. Con affetto, la mamma.”

Che cosa dice Ermanno Olmi, posto fisso o l’anima salva?

Credo di far parte di una generazione quella nata negli anni 70 che Andrea Scanzi, giornalista de: “Il fatto quotidiano” ha definito giustamente come: “La generazione perduta”.

Lasciamo stare che il nostro Presidente del Consiglio Matteo Renzi, nato nel 1975 è a capo del Governo italiano ( senza essere stato eletto dai cittadini, particolare non certo secondario ) nonostante questo è uno che nella vita è riuscito ad arrivare in alto, molto in alto.
Anche se l’ex Direttore de: “Il Corriere della Sera” Ferruccio de Bortoli nel suo ultimo editoriale prima di lasciare la guida del quotidiano di via Solferino, si è fatto qualche legittima domanda su questa sua incredibile ascesa al potere.

Tolte le solite eccezioni, confermo come la nostra generazione sia andata perduta.

Oltre a questo, ha vissuto e vive tuttora nella cosiddetta “Terra di mezzo”.

Convinta dai propri genitori sulla bontà del posto fisso e a tempo indeterminato così come da loro conquistato e voluto tenacemente.

Noi abbiamo accolto le loro richieste, ci siamo presi ciò che non ci eravamo conquistati e che comunque poteva farci sembrare d’avere un futuro ed una pensione alla fine della nostra attività lavorativa.

Ma nel frattempo uno “tsunami” chiamato in diversi modi, quali: globalizzazione, crisi economica, dumping salariale, concorrenza ci ha fatto comprendere come stava nascendo un’altra generazione di giovani destinati ad essere precari.

I ragazzi degli anni 90, disincantati che non sanno neppure che cosa sia un contratto a tempo indeterminato e che se va bene, si vedono rinnovare il loro contratto di lavoro di mese in mese.

Ma nonostante questo, vivono il loro continuo presente, dove non sanno di che “morte dovranno morire”, o che tipo di vita potranno vivere.

Una coppia di ragazzi di questa generazione qualche giorno fa mi ha raccontato come hanno organizzato le loro vacanze estive. Prima di acquistare il biglietto, hanno atteso il tanto desiderato rinnovo del contratto.

In tutto questo, pensate che il periodo di ferie venga loro pagato?

Ma scherziamo, vero?

Il contratto scade al 31 luglio e verrà rinnovato il 1 settembre, e quindi: Buone vacanze!

Ma, per fortuna, il contratto di lavoro sarà rinnovato… per un altro mese… poi si vedrà.

In tutto questo, nella nostra confort zone di giovani degli anni 70 che hanno conosciuto contratti di lavoro a tempo indeterminato, con ferie, maternità, malattie e diritti quando vedono queste situazioni rimangono spiazzati, senza parole, paralizzati, increduli.

Non comprendono, non capiscono come si possano accettare queste condizioni.

Lo so, tutti mi dicono, in mancanza d’altro che cosa possono fare?

Voi siete dei privilegiati!

Personalmente, non mi sento un privilegiato.

Sento invece che anche questi giovani debbano finalmente avere dei contratti di lavoro regolari, un futuro, una possibilità di scegliere come l’abbiamo avuta noi.

La deregolamentazione ha portato solo flessibilità e precarietà che non aiutano certo la crescita del nostro Paese e i numeri lo dimostrano ogni santo giorno.

Poi, leggo un’intervista ad Ermanno Olmi che capovolge tutto il mio pensiero, la mia visione.

“Molti lavoratori hanno compreso che il posto fisso è una fregatura” ha sentenziato al quotidiano: “La Repubblica” in un’intervista di qualche giorno fa.

Poi il giornalista gli ha chiesto, se dovesse fare un film sul lavoro oggi?

«Racconterei la solitudine di chi, avendo venduto l’anima alla certezza del posto, si sente più servo che persona con la sua individualità. È ciò di cui ha bisogno il grande sistema industriale, dipendenti come servitori. La speranza? Credo che le crisi che stiamo vivendo siano un segnale da prendere come nuova speranza. Molti giovani capiscono che il posto fisso può significare la rinuncia alla propria anima».

In tutto questo, io continuo a pensare che i giovani debbano lottare per ottenere i propri diritti, di non dare nulla per scontato e di chiedere qualcosa di meglio per loro stessi e per il loro futuro, saranno loro a guidare il nostro Paese un giorno.

La visione di Olmi è l’opposto della mia.

Chissà invece che ne penseranno i ragazzi degli anni Novanta.

Ci sono ancora…

Mi chiedo ormai da tempo se l’esistenza del mio blog avesse ancora un senso.

Se dovessimo valutare in tutta sincerità la prima risposta ( di pancia ) che mi verrebbe sarebbe senz’altro un grande NO.

Perché continuare a tenere in vita un blog che i numerosi impegni professionali non mi hanno consentito di portare avanti?

Ha senso un blog in cui non si scrive per troppo tempo?

Mi ripeto, secondo me, no.

Anche se per una delle poche volte in vita mia mi permetto di non essere categorico: può avere un senso se le cose che dici anche saltuariamente hanno un senso, sono interessanti per chi le legge e non appagano solo la tua semplice voglia di scrittura che può rischiare di diventare esattamente fine a se stessa ( prova con un libro allora, magari diventi il nuovo premio Strega 2016).

Quindi possiamo permetterci di fare un’analisi qualitativa e non meramente quantitativa di quanto si scrive in generale.

Dopo questa doverosa premessa, credo di dover scrivere un post su una notizia che mi ha colpito e molto.

Ormai i fatti di cronaca, sembrano tutti uguali nella loro crudeltà  e nella loro infinità drammaticità.

Personalmente, sono rimasto profondamente colpito da quell’uomo piccolo, magro ed esile, Pasqualino Folletto, dal nome che lo definisce perfettamente che ha  inferto colpi con un coltello, per 45 volte, ad una vittima innocente.

Maria Luisa Fassi, tabaccaia di Asti, donna, moglie e madre.

Da tutti descritta come una persona sempre positiva, sorridente, generosa come tutta la sua famiglia che era molto religiosa e sempre in prima linea per aiutare le persone in difficoltà.

Ora, Pasqualino Folletto, faceva il magazziniere come lavoro ed era sposato e padre di 3 figli, due gemelli di 7 anni e una bimba di 11 anni malata e bisognosa di cure mediche molto costose.

Chissà se avesse chiesto semplicemente a quella donna un aiuto economico, senza neppure tentare una rapina poi finita in tragedia, se davvero non sarebbe andata diversamente.

La vittima, da sempre impegnata nel sociale e nel volontariato sono certo che gli avrebbe teso la mano. Purtoppo sappiamo tutti come è andata, e la lezione morale di tutto arriva alla fine dai genitori di Maria Luisa che affermano:

” Aiuteremo la figlia malata di Pasqualino Folletto”

Se i figli non sono nient’altro che il risultato dell’educazione data dai propri genitori, penso davvero che a Pasqualino Folletto sarebbe bastato chiedere una mano a Maria Luisa che, ne sono convinto, gliel’avrebbe tesa senza indugio.

Italici contro anglosassoni

Vedendo il numero di coloro i quali decidono di lasciare l’Italia, causa mancanza cronica di opportunità di lavoro degne di queste nome, si rimane spiazzati.

Ho sentito molti genitori incentivare i propri figli a studiare l’inglese per avere maggiori chance di impiego in futuro.

Una mamma mi ha detto: “Credo che questo Paese sia sostanzialmente finito, è giusto che i miei figli facciano le valigie per avere un futuro che potranno avere unicamente lontano dall’Italia”.

E allora mi sono chiesto: “Perché vanno quasi tutti a Londra?”

E sostanzialmente credo di immaginare questo scenario, diviso in due, tra la società anglosassone e la società italiana, che riassumerei piuttosto brutalmente così:

 

1) SOCIETA’ ANGLOSASSONE:

A mio modo di vedere e, dopo aver sentito diverse testimonianze di chi effettivamente ci ha vissuto, credo che la società anglosassone sia una società più cattiva e classista ma, allo stesso tempo, se studi filosofia o letteratura inglese, andrai quasi certamente a lavorare in un contesto congruo con il tuo processo di studi.

2) SOCIETA’ ITALIANA:

La nostra, invece, è una società meno cattiva all’apparenza, buonista in maniera ipocrita ma, che allo stesso tempo, se sei bravo e meritevole non solo ti mette da parte, ma ti fanno anche capire che stai dando fastidio con la tua competenza e professionalità.

In tutto questo che dire ?

Continuare ad andare a testa alta facendo quel che si sa, è la strategia migliore ma che dà  anche molto fastidio, a tutte quelle persone che sono il più delle volte cooptate, scelte non per merito, ma per motivi spesso molto distanti dalle capacità e dal merito stesso.

Risulta difficile riuscire a cambiare una mentalità sempre più basata sul “servilismo” sull’essere sempre pronti ad elemosinare ciò che dovrebbe essere la base di una società civile: libertà di fare, di sapere, di studiare e di fare quel per cui uno ha studiato e, se non si è studiato, per fare quello verso cui si è portati.

Se questo non accade, si sgretola un caposaldo imprescindibile della società.

Seguo le mie attitudini, le mie capacità.

Se uno studia filosofia e lettere moderne, trova lavoro?

Se uno perde il lavoro, rischia di non trovarne più uno?

Quali sono le risposte?

Di risposte non ce ne sono, in Italia.

Ma i fatti dimostrano che se un genitore sentisse il proprio figlio chiedere di poter studiare Filosofia, saremmo contenti come genitori, o preoccupati dal fatto che forse avremo in casa dei potenziali disoccupati?

Io credo la seconda.

Non sono certo del fatto come molti giornalisti sostengono che questo Paese sia condannato, ma penso che seppur con i nostri pregi e i nostri difetti, siamo sempre riusciti a barcamenarci.

L’epoca di oggi, globale, tecnologica, veloce e concorrenziale ti costringe a limare i difetti e a migliorare, esaltandoli, i pregi che abbiamo.

Seguendo questo “opus operandi” magari ce la potremmo anche fare.

Modelli di giornalismo a confronto

Quando penso al primo quotidiano al mondo, penso al The New York Times.

Da sempre, per me in termini assoluti, il primo della classe, è l’unico che possa vantare il maggior numero di Premi Pulitzer vinti nella storia.

E il NYT dall’anno della sua fondazione, ne ha vinti più di 100 dal 1917 ad oggi.

E’ comunque davanti, a questa mia personale classifica, al The Washington Post, che fu protagonista assoluto nel caso “Watergate” e che, grazie alla caparbietà dei suoi reporter, Bob Woodward e Carl Bernstein, permise di far cadere l’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, Richard Nixon, nel 1974.

Questa premessa, a onor del vero, non è per fare come sempre un paragone ( impietoso ) tra i più grandi quotidiani del mondo e i nostri, ma per approfondire un tema più profondo, quello relativo alla libertà dell’informazione.

In realtà, a leggere i documenti relativa alla Classifica mondiale della Libertà di Stampa 2013, gli Stati Uniti d’America, non si trovano esattamente sul podio, ma al 32° posto mentre, il Regno Unito, al 29° e la Francia, al 37°.

L’Italia?

E’ al 57° posto e precede di una posizione, Hong Kong ma viene scavalcata tra le altre, da: Moldavia, Ungheria, Haiti, Burkina Faso, Trinidad e Tobago, Niger, Romania, Botswana, Papa Nuova Guinea, Lettonia ed El Salvador.

Ma c’è un dato ancora più significativo che mi fa comprendere davvero, che ci troviamo non solo al cospetto di una grande civiltà, ma anche di fronte ad un nuovo modello culturale da seguire, da studiare e da condividere.

Lo dimostra il fatto che vengano rappresentati tutti i singoli Paesi di un’intera area geografica, quella nordeuropea e scandinava, nella Classifica mondiale della Libertà di Stampa 2013, e che ognuno di questi, si posizioni tra i primi 10 posti della classifica mondiale del 2013, infatti:

Finlandia, 1° – Olanda 2° – Norvegia 3° – Lussemburgo 4° – Andorra 5° – Danimarca 6° – Liechstein 7° – Nuova Zelanda 8° – Islanda 9° – Svezia 10° –

Visti i dati di cui sopra, davvero oggi possiamo considerare liberi e, in un certo senso, ancora “i primi della classe”  a livello mondiale, giornali come The New York Times e il The Guardian ?

Henry Farrel, giornalista del The Washington Post ha affermato: “Queste testate ( Nyt e The Guardian, ndr ) hanno rapporti politici con i governi e sono per questo in difficoltà quando devono decidere se pubblicare e, quindi, avvalorare certe notizie”.

Se due quotidiani di questa caratura possono rischiare di cadere in questo tipo di contraddizioni così lampanti, come non possono essere giudicati come dei mezzi che limitino la reale libertà di informazione?

Come possiamo pensare altresì che, nel nostro Paese, dei giornali, siano davvero liberi, se anche dei “mostri sacri” come questi, hanno i loro “scheletri nell’armadio?”

Non illudiamoci. Anzi, probabilmente non lo abbiamo mai fatto.

twitter@normandilieto

La generazione perduta e quella che arriverà dopo

Sulla realtà del nostro Paese continuiamo a sentirne tante: il Paese delle corporazioni, delle lobby, dei gruppi economici e finanziari, politici e sindacali.

Ciò che mi colpisce maggiormente del nostro Paese è come si sia persa una generazione, quella dei nati tra la fine degli anni ’70 per intenderci fino ad arrivare a quelli che sono nati a metà degli anni ’80.

In molti la chiamano ormai “La generazione perduta” e, tempo fa, anche lo stesso Mario Monti, allora Presidente del Consiglio, rivolse a questa categoria un gelido e alquanto scioccante: “Quelli li abbiamo ormai perduti, rivolgiamoci ai giovani”.

In realtà ciò che pare diventare ancor più paradossale è il fatto che in realtà le generazioni più giovani di quella ormai “perduta”, si trovino  comunque in situazioni ancor peggiori dei loro colleghi di poco più grandi.

Infatti, questi giovani, in Italia, troveranno alla fine del loro percorso di studi, un lavoro degno di questo nome?

E per degno di questo nome, si intende: retribuito in maniera congrua e con le dovute coperture sanitarie e contributive. Lo troveranno secondo voi?

Perché se la “generazione perduta” un lavoro stabile ce l’ha e, seppure, spesso non in linea con il percorso di studi effettuato, può vantare, a differenza dei giovani che si vogliano affacciare oggi nel mondo del lavoro, dei seguenti benefits: contributi previdenziali, copertura sanitaria, pagamento di ferie e quant’altro. E gli altri, li avranno mai?

Anche perché rischieremmo di trovarci davvero con una spaccatura significativa non solo con coloro i quali hanno perso il lavoro e non riescono a trovare un’altra occupazione, ma anche con chi, seppur lavorando, si troverà in condizioni diametralmente opposte dalle altre.

In tutto ciò chi ha un lavoro se lo tiene stretto e chi esce dal mondo del lavoro fatica maledettamente a trovarne un altro.

O cominceremo a pensare davvero e in maniera concreta a questa situazione con politiche di medio e lungo termine, oppure le soluzioni “tampone” finalizzate solo a tappare le falle del sistema attuale non potranno essere più sufficienti.

twitter@normandilieto