Che cosa dice Ermanno Olmi, posto fisso o l’anima salva?

Credo di far parte di una generazione quella nata negli anni 70 che Andrea Scanzi, giornalista de: “Il fatto quotidiano” ha definito giustamente come: “La generazione perduta”.

Lasciamo stare che il nostro Presidente del Consiglio Matteo Renzi, nato nel 1975 è a capo del Governo italiano ( senza essere stato eletto dai cittadini, particolare non certo secondario ) nonostante questo è uno che nella vita è riuscito ad arrivare in alto, molto in alto.
Anche se l’ex Direttore de: “Il Corriere della Sera” Ferruccio de Bortoli nel suo ultimo editoriale prima di lasciare la guida del quotidiano di via Solferino, si è fatto qualche legittima domanda su questa sua incredibile ascesa al potere.

Tolte le solite eccezioni, confermo come la nostra generazione sia andata perduta.

Oltre a questo, ha vissuto e vive tuttora nella cosiddetta “Terra di mezzo”.

Convinta dai propri genitori sulla bontà del posto fisso e a tempo indeterminato così come da loro conquistato e voluto tenacemente.

Noi abbiamo accolto le loro richieste, ci siamo presi ciò che non ci eravamo conquistati e che comunque poteva farci sembrare d’avere un futuro ed una pensione alla fine della nostra attività lavorativa.

Ma nel frattempo uno “tsunami” chiamato in diversi modi, quali: globalizzazione, crisi economica, dumping salariale, concorrenza ci ha fatto comprendere come stava nascendo un’altra generazione di giovani destinati ad essere precari.

I ragazzi degli anni 90, disincantati che non sanno neppure che cosa sia un contratto a tempo indeterminato e che se va bene, si vedono rinnovare il loro contratto di lavoro di mese in mese.

Ma nonostante questo, vivono il loro continuo presente, dove non sanno di che “morte dovranno morire”, o che tipo di vita potranno vivere.

Una coppia di ragazzi di questa generazione qualche giorno fa mi ha raccontato come hanno organizzato le loro vacanze estive. Prima di acquistare il biglietto, hanno atteso il tanto desiderato rinnovo del contratto.

In tutto questo, pensate che il periodo di ferie venga loro pagato?

Ma scherziamo, vero?

Il contratto scade al 31 luglio e verrà rinnovato il 1 settembre, e quindi: Buone vacanze!

Ma, per fortuna, il contratto di lavoro sarà rinnovato… per un altro mese… poi si vedrà.

In tutto questo, nella nostra confort zone di giovani degli anni 70 che hanno conosciuto contratti di lavoro a tempo indeterminato, con ferie, maternità, malattie e diritti quando vedono queste situazioni rimangono spiazzati, senza parole, paralizzati, increduli.

Non comprendono, non capiscono come si possano accettare queste condizioni.

Lo so, tutti mi dicono, in mancanza d’altro che cosa possono fare?

Voi siete dei privilegiati!

Personalmente, non mi sento un privilegiato.

Sento invece che anche questi giovani debbano finalmente avere dei contratti di lavoro regolari, un futuro, una possibilità di scegliere come l’abbiamo avuta noi.

La deregolamentazione ha portato solo flessibilità e precarietà che non aiutano certo la crescita del nostro Paese e i numeri lo dimostrano ogni santo giorno.

Poi, leggo un’intervista ad Ermanno Olmi che capovolge tutto il mio pensiero, la mia visione.

“Molti lavoratori hanno compreso che il posto fisso è una fregatura” ha sentenziato al quotidiano: “La Repubblica” in un’intervista di qualche giorno fa.

Poi il giornalista gli ha chiesto, se dovesse fare un film sul lavoro oggi?

«Racconterei la solitudine di chi, avendo venduto l’anima alla certezza del posto, si sente più servo che persona con la sua individualità. È ciò di cui ha bisogno il grande sistema industriale, dipendenti come servitori. La speranza? Credo che le crisi che stiamo vivendo siano un segnale da prendere come nuova speranza. Molti giovani capiscono che il posto fisso può significare la rinuncia alla propria anima».

In tutto questo, io continuo a pensare che i giovani debbano lottare per ottenere i propri diritti, di non dare nulla per scontato e di chiedere qualcosa di meglio per loro stessi e per il loro futuro, saranno loro a guidare il nostro Paese un giorno.

La visione di Olmi è l’opposto della mia.

Chissà invece che ne penseranno i ragazzi degli anni Novanta.

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La famiglia Bélier e gli altri francesi

Ne avevo già scritto in precedenza sulla differenza sostanziale che a mio avviso corre tra il cinema francese e quello italiano.

Ce ne corre parecchia mi viene da dire ma, i diversi elementi che i francesi riescono a mettere sul piatto rispetto a noi in tema di film, sono:  la volontà di affrontare temi sociali e di attualità anche controversi, una sensibilità di primissimo piano nel trattare gli stessi ed una capacità di fotografare la realtà in maniera impeccabile.

Prendiamo per esempio il tema dell’immigrazione: ad oggi si tratta di una discussione sempre più sentita in Italia, con continui scambi di accuse tra le varie parti politiche, sia di lotta che di governo, la Chiesa e chiunque abbia da dire qualcosa sull’argomento, finanche si tratti del pubblico di qualche piazza in collegamento tv di qualche talk show nazionalpopulista.

Già nel 2009 un film francese: “Welcome” raccontava la difficile storia tra un cittadino francese ex nuotatore olimpico ed un  ragazzo Bilal Kayani, immigrato curdo-iracheno desideroso di raggiungere la sua fidanzata che vive con la famiglia a Londra.

La vuole raggiungere attraversando a nuoto la Manica e nonostante l’ex campione cerchi continuamente di persuaderlo, il ragazzo non vuole venir meno alla promessa fatta alla ragazza che nel frattempo è stata promessa in sposa dal padre ad un altro ragazzo di Londra.

Il rapporto tra i due protagonisti non manca di ruvidezza ma anche di sensibilità estrema nel far rischiare all’uomo di essere accusato di complicità nel nascondere un immigrato ricercato dalle autorità francesi. La sua consapevolezza di commettere un reato, nel tentativo di aiutarlo ad attraversare la Manica a nuoto, mettono l’uomo a dura prova.

Inutile dire che il ragazzo non ce la farà a raggiungere la Gran Bretagna a nuoto e come alla fine Simon, distrutto dal dolore per la morte del ragazzo,  decida di andare in Gran Bretagna  a raccontare l’incredibile storia di Bilal alla sua fidanzata.

Sul tema del lavoro invece, in epoca di crisi economica e nella fragilità dei rapporti di lavoro, il film: “Due giorni, una notte” dei fratelli Dardenne è ancora più emblematico.

Una donna, moglie e madre di due figli è operaia di una piccola ditta di pannelli solari. Il proprietario avendo notato che la stessa rappresenterebbe “l’anello debole” della catena di montaggio, propone ai suoi colleghi di votare per il suo licenziamento; qualora vincessero i sì, otterrebbero un premio di 1000€ .

Dopo la vittoria dei Sì, Sandra riesce aiutata dal marito a rifare la votazione, chiedendo che sia garantito l’anonimato a chi vota.

Parte da qui una corsa contro il tempo che vedrà Sandra dover convincere i propri colleghi a non votare per il suo licenziamento.

Ci saranno anche qui scontri ruvidi tra chi vorrebbe mettere le mani su quei 1000€ anche a costo di far perdere il lavoro alla propria collega.

Qui, l’assenza di sensibilità da parte dei colleghi nei confronti di una madre che rischia di perdere il proprio lavoro, la loro avidità nella speranza cieca di ottenere un bonus inaspettato può rendere le persone incapaci di solidarietà.

Chiudiamo con la Famiglia Bélier.

Che dire di questa commedia geniale?

Una famiglia di contadini, marito e moglie, entrambi sordi, così come il loro figlio maschio.

Solo Paula, la loro figlia femmina, riesce ad essere una sorta di “trait d’union” tra la famiglia e il mondo esterno: nel rapporto coi fornitori, con i clienti, con la comunità cittadina e quindi con il mondo intero.

Ma quando Paula si iscrive ad un corso estivo di canto solo perché lo ha appena fatto anche il ragazzo che le piace, non saprà di essere appena andata incontro al suo destino.

Infatti, il maestro di musica scoprirà subito in lei una vera e propria “stella”.

L’opportunità che le si presenta è quella di affrontare un provino a Parigi a: “Radio France” dove trionferà e dove gli stessi genitori, seppur sordi, si emozioneranno fino alle lacrime, davanti alla performance della figlia.

Anche qui il tema della diversità, del mondo affrontato ogni giorno con forza, entusiasmo ed ottimismo nonostante le oggettive difficoltà e la consapevolezza che un giorno, come poi accadrà, verrà a mancare anche il supporto della figlia Paula.

Nonostante questo, il Signor Bélier, riuscirà a diventare anche il sindaco del Paese, senza il supporto di Paula ma con l’aiuto della moglie e la solidarietà di tutta la cittadina che non fermandosi all’apparenza sceglie proprio lui per cambiare le cose nel piccolo borgo della Provenza, fermo da troppo tempo anche per colpa dello storico sindaco contro cui battendosi con coraggio alle Elezioni nonostante tutto, riuscirà ad avere la meglio.

Con Paula lontana a Parigi, ma vicina col cuore.

Smile, please!

In una società che ama allo stesso modo la spettacolarizzazione dei sentimenti in programmi “strappalacrime” e, le persone che vivono come su di un palcoscenico sempre pronti a sorridere a 42 denti, per dimostrare al pubblico di essere felici e di vivere più di altri una vita davvero piena ed appagante, faccio fatica a trovare una sana via di mezzo, fatta di individui che sappiano far convivere sia la tristezza che la felicità, sia l’entusiasmo che la noia, sia l’ottimismo che un po’ di pessimismo.

E invece no, il “Vai di selfie” anche durante la rasatura mattutina deve vincere sempre, ma tant’è questo è il logorio della vita moderna che non ammette che una persona possa sentirsi un po’ giù, magari anche triste, in alcuni momenti della sua vita come è anche giusto che sia.

Perché questo sentimento, la tristezza appunto,  così come la felicità esiste in ognuno di noi ma, rispetto alla felicità, non sembra avere lo stesso diritto di cittadinanza.

Ne scrive oggi il quotidiano: “La Repubblica” proprio su questa condanna alla felicità permanente che sembra si debba avere per vivere come si deve, come vorrebbero gli altri, o peggio, come fingono tutti di saper fare con tanta maestria.

Insomma tristezza per favore vai via, visto che non può esserci nella vita privata di ognuno di noi e tantomeno sembra essere apprezzato sui luoghi di lavoro, dai responsabili delle risorse umane delle Aziende.

Per questo leggerò il saggio del sociologo inglese William Davies, dal titolo: “The Happiness Industry: how the government and big business sold us well-being”  edito da Verso.

Voglio davvero comprendere come la felicità sia diventata una sorta di sentimento obbligato sia nella nostra vita professionale che nella nostra sfera privata.

Ho visto molte volte i cosiddetti “entusiasti da laboratorio”: quelli che si entusiasmerebbero anche nel vedere la nuova marca di toner della stampante, ma in loro riconosci in maniera evidente una sorta di entusiasmo artificiale, creato a tavolino.

E certi entusiasti ci credono perché devono farlo, ma almeno sanno recitare meglio di altri e hanno una disciplina militare nel fare ciò che viene chiesto loro. E attenzione invece a chi non sposa i facili entusiasmi, perché oltre a finire sotto la lente di ingrandimento, potrà anche essere bollato come: disturbatore, sabotatore o peggio come un anticonformista che difficilmente si riterrà pronto a venire omologato da chicchessia.

Giusto o sbagliato che sia, onore al merito soprattutto a loro, perché saper andare controcorrente in questi tempi moderni, non è per niente facile.