Smile, please!

In una società che ama allo stesso modo la spettacolarizzazione dei sentimenti in programmi “strappalacrime” e, le persone che vivono come su di un palcoscenico sempre pronti a sorridere a 42 denti, per dimostrare al pubblico di essere felici e di vivere più di altri una vita davvero piena ed appagante, faccio fatica a trovare una sana via di mezzo, fatta di individui che sappiano far convivere sia la tristezza che la felicità, sia l’entusiasmo che la noia, sia l’ottimismo che un po’ di pessimismo.

E invece no, il “Vai di selfie” anche durante la rasatura mattutina deve vincere sempre, ma tant’è questo è il logorio della vita moderna che non ammette che una persona possa sentirsi un po’ giù, magari anche triste, in alcuni momenti della sua vita come è anche giusto che sia.

Perché questo sentimento, la tristezza appunto,  così come la felicità esiste in ognuno di noi ma, rispetto alla felicità, non sembra avere lo stesso diritto di cittadinanza.

Ne scrive oggi il quotidiano: “La Repubblica” proprio su questa condanna alla felicità permanente che sembra si debba avere per vivere come si deve, come vorrebbero gli altri, o peggio, come fingono tutti di saper fare con tanta maestria.

Insomma tristezza per favore vai via, visto che non può esserci nella vita privata di ognuno di noi e tantomeno sembra essere apprezzato sui luoghi di lavoro, dai responsabili delle risorse umane delle Aziende.

Per questo leggerò il saggio del sociologo inglese William Davies, dal titolo: “The Happiness Industry: how the government and big business sold us well-being”  edito da Verso.

Voglio davvero comprendere come la felicità sia diventata una sorta di sentimento obbligato sia nella nostra vita professionale che nella nostra sfera privata.

Ho visto molte volte i cosiddetti “entusiasti da laboratorio”: quelli che si entusiasmerebbero anche nel vedere la nuova marca di toner della stampante, ma in loro riconosci in maniera evidente una sorta di entusiasmo artificiale, creato a tavolino.

E certi entusiasti ci credono perché devono farlo, ma almeno sanno recitare meglio di altri e hanno una disciplina militare nel fare ciò che viene chiesto loro. E attenzione invece a chi non sposa i facili entusiasmi, perché oltre a finire sotto la lente di ingrandimento, potrà anche essere bollato come: disturbatore, sabotatore o peggio come un anticonformista che difficilmente si riterrà pronto a venire omologato da chicchessia.

Giusto o sbagliato che sia, onore al merito soprattutto a loro, perché saper andare controcorrente in questi tempi moderni, non è per niente facile.

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